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Al di la’ dei pini c’e’ il mondo

Un racconto delle giornate di direzioniAltre Festival tuttelestradeportanoaRoma
svolto presso il Piazzale dei Caduti della Montagnola e la Biblioteca Arcipelago Auditorium – 2/7 Agosto 2022

“Altro può essere un’occasione per scoprire ciò che prima ignoravo”

“Altro mi fa pensare ad una direzione lunga, nuova, piena”

“Altro è una potenziale ricchezza”

“Altro è donare un nuovo sguardo senza pretese di essere compresi”

“Altro è prendere strade che non avevo considerato. Altro da ciò che avevo deciso di essere”

“Altro è fuori dagli schemi, un’alternativa, ha a che fare con la curiosità. Altro è plurale”

 

Cosa vuol dire scegliere una direzione? Altra rispetto a cosa?

Ho creduto che sarebbe stato interessante trovare una risposta a queste domande, chiedendo alle persone che mi sono state vicine quali idee o immagini risvegliasse in loro la parola altro. È bastato poco perché le loro risposte mi aiutassero ad ampliare il mio sguardo ed è per questo che ho deciso di riproporre alcuni dei pensieri condivisi in apertura di questo racconto.

La vita quotidiana scorre nelle strade, nei negozi, nei bar e il suo flusso continuo sembra non deviare mai dal suo andamento ciclico e sistematico. Sulla mia via mi domando se le persone che vedo in fila, in attesa del loro turno negli uffici accanto alla biblioteca, contemplino la possibilità che a qualche metro di distanza da loro stia per accadere qualcosa che modifichi la routine di quei luoghi. Intorno a me per il momento non c’è ancora nessuno, se non i miei colleghi.

Altro è accogliere l’ignoto… rischiare.

La biblioteca è stata allestita in vista dei laboratori che inizieranno di lì a poco e l’aria dei condizionatori della sala centrale mitiga la temperatura torbida della città. I tavoli e le sedie sono stati spostati negli angoli della sala e i libri negli scaffali circondano il tappeto di linoleum che adesso occupa lo spazio solitamente dedicato alla lettura e che crea un confine immaginario, liminale tra il luogo deputato al teatro e i muri bianchi e silenziosi della biblioteca. L’intersezione di questi spazi è un elemento singolare in quanto crea una possibilità di incontro tra il teatro e il pubblico; di conseguenza anche l’evento teatrale prende una forma nuova e i confini della scena divengono meno netti e delimitanti: le persone che entrano nella biblioteca per curiosare  tra i libri e i film in dvd, si con-fondono con noi ragazzi  che invece occupiamo lo spazio-laboratorio interno a quello più ampio della biblioteca: la separazione e la differenza tra gli uni e gli altri diventano minime ed impercettibili.

Altro vuol dire rendere familiare un luogo estraneo perché non abituale alla propria pratica, annullare la separazione tra il pubblico e il privato, il proprio e ciò che è dell’altro.

In apertura della prima giornata del Festival, durante il laboratorio di teatro guidato da Giampiero Rappa, è stato caldamente condiviso il tema dei luoghi-altri. Al primo contatto con un luogo inizialmente estraneo, quasi lontano, come quello della biblioteca, segue una consapevolezza più profonda dello spazio occupato che dà piuttosto un valore aggiunto allo svolgimento del laboratorio. La biblioteca diventa così una risorsa, una possibilità di scoperta di nuove modalità di lavoro e di ricerca.

È su questo piano esperienziale che abbiamo costruito le basi per lavorare su Il Gabbiano di Cechov addentrandoci nelle dinamiche relazionali dei personaggi frustrati dai limiti comunicativi e di azione dell’umano. L’analisi guidata del testo ci ha condotto su un livello di comprensione e interiorizzazione dei sentimenti, permettendoci, attraverso un’improvvisazione guidata, di osservare la realtà da due prospettive diverse, ma non necessariamente opposte, la nostra, personale e privata che appartiene alla contingenza del presente e quella del personaggio del dramma cechoviano.

La cura del luogo e il rispetto del silenzio sono elementi imprescindibili durante i laboratori. Amplifichiamo la nostra visione e la nostra attenzione anche nei confronti di chi continua ad entrare sorpreso e curioso: qualcuno si ferma ad osservare, qualcuno chiede informazioni, qualcun altro attraversa lo spazio ignorando apparentemente l’ambiente. Conclusa una breve pausa, ritorniamo nel nostro nucleo per proseguire con il workshop di danza contemporanea guidato da Csaba Varga (Cie Linga) che ha incentrato il suo lavoro sull’insegnamento di pratiche di parkour e break dance miscelate ad alcune danze folkloristiche adattate alla sua personale ricerca sul movimento.

Altro è cercare nelle nostre radici l’origine di culture differenti dalla propria, ritrovare in sé stessi l’ignoto attraverso una pratica comune e terrena come quella delle danze popolari. La terra non distingue le radici di una pianta da quelle di un’altra: ognuna condivide la stessa fonte di nutrimento.

Oltre ad ospitare i laboratori di teatro e danza, la biblioteca ha accolto gli incontri laboratoriali per bambini di Piero Cherici. Fare teatro per l’infanzia si rivela un lavoro sul linguaggio che si rinnova continuamente; attraverso il gioco, il disegno, il movimento e la scoperta di strumenti come la darbuka, la tammorra, il cembalo, i cucchiai di legno da cucina, il tongue drum, i bambini sono invitati a stare insieme, ascoltare, osservare e realizzare una sinfonia. Sinfonia musicale, ma anche sinfonia comunicativa, armonia di intenti e di significati. Lo strumento musicale diventa una chiave per infinite possibilità di creazione e persino “non farlo suonare” diventa un’occasione per risolvere in modo creativo l’ovvia circostanza. Il silenzio si rivela un passaggio inevitabile ed importante per creare un momento di ascolto reciproco e fare la propria scelta in uno spazio condiviso. Desidero riportare qui un ricordo che Piero Cherici ha condiviso a conclusione della giornata perché significativo rispetto alla poetica del suo lavoro. Egli racconta di quando, in vista di un suo laboratorio, mentre sistemava i suoi oggetti di scena, un bambino ancora molto piccolo iniziò a camminare verso uno dei tamburi posizionati sul pavimento. In quell’istante egli capì di aver preso visceralmente coscienza del percorso denso e illimitato che intercorreva tra il bambino e quell’oggetto a lui completamente sconosciuto. Nel camminare in direzione del tamburo, il bambino era esposto agli odori, ai suoni e alla vista di tutto l’ambiente che lo circondava. La sua azione non riguardava una volontà rigida e razionale, bensì un desiderio dell’ignoto libero da sovrastrutture.

Altro vuol dire fare esperienza attraverso gli occhi dei bambini.

I laboratori nella biblioteca sono infine suggellati da una tavola rotonda in cui discutiamo sulla differenza tra attore, interprete e performer e sul rapporto tra la danza e il teatro oggi. Un interprete può essere colui che si serve di più linguaggi mentre un performer colui che fa una scelta artistica ben precisa. Il performer lavora sull’azione e non sulla messa in scena, mentre un regista insieme ai suoi attori lavora sull’azione scenica. Può darsi anche che non sia necessario fare una distinzione tra i mestieri: «L’importante è che funzioni!». A questo proposito lo studio di una pratica consente anche di miscelare questa con altre metodologie ed è in questo senso che la danza e il teatro possono condividere un terreno comune. All’interno del proprio lavoro e della propria ricerca artistica è necessaria una grande onestà; bisogna sapere a che punto si è del proprio percorso, avere il coraggio di stare nel vuoto e proteggere il diritto alla paura rispetto all’atto creativo. Lo scultore non sa mai come è fatto l’interno del materiale che sta per scolpire: egli deve saper sfruttare i vizi di forma e i suoi vuoti.

Altro è fare una propria scelta al di là della forma.

Realizzare laboratori teatrali per bambini e adulti all’interno di una biblioteca permette di aprire un luogo di cultura a tutti e renderlo fruibile e accessibile a chiunque scelga di lasciar scorrere la propria curiosità. La biblioteca non è soltanto un contenitore di libri, bensì un’amalgama di cultura viva, tangibile attraverso gli sguardi, la parola, la danza, il confronto con chi sceglie di aprirsi al nuovo.

Altro è ciò che percepiamo distante, ma che possiamo intercettare dentro di noi.

Facciata della Chiesa di Gesù Buon Pastore situata in Piazza dei Caduti della Montagnola – disegno di Valerio Riondino

Questa apertura è sicuramente evidente nella piazza, luogo del popolo e di socializzazione, luogo di tutti. Lo stare insieme prevede un accordo tacito di cura nei confronti del prossimo e, a guardar bene, ciò è possibile quando si costruisce un terreno comune di intenti grazie al quale la piazza può diventare un luogo accogliente e sicuro. Ho l’occasione di incontrare molte persone, alcune delle quali hanno un irresistibile desiderio di essere attivamente coinvolte.  Ognuno sceglie il proprio posto, libero di passeggiare, fermarsi, domandare, andare oltre con lo sguardo, fermare il tempo per entrare in un tempo diverso dal proprio e chi aveva seguito le giornate in biblioteca ritorna in piazza trasportato dalla voglia di far parte dell’evento.

Altro è sinergia.

Per evento non intendo solo l’attimo puntuale dello spettacolo, tempo ufficiale di raccordo, bensì l’insieme di tutti gli elementi che costituiscono l’ambiente in cui il Festival si svolge: il caldo estivo del primo pomeriggio contrastato dall’acqua fresca della fontana in un angolo della piazza, l’odore dei pini e dell’erba secca delle aiuole, il rumore sordo del traffico, i palazzi del quartiere ai quali giungono le voci dei microfoni. Ogni dettaglio è parte attiva di un festival in piazza. Il tempo della programmazione si misura sul tempo di chi attraversa il luogo in cui questa si svolge. Si crea infatti una relazione necessaria e sostanziale tra chi dirige l’evento performativo e il pubblico affinché tutti gli appuntamenti diventino un’occasione di condivisione, di festa e partecipazione emotiva.

Ogni giornata è stata costruita su un equilibrio di veduta: il Festival è inaugurato dalla musica del duo Bartowski e si conclude con il concerto del violinista Soichi Ichikawa. La musica ha infatti un immenso potere di unione e aggregazione, elemento imprescindibile per dare vita ad uno spazio comune. La piazza inizia così a vivere di una vita propria. Nel pomeriggio le persone si fanno più numerose e tra il pubblico i protagonisti indiscussi sono i bambini che, abituati a frequentare la loro piazza si ritrovano improvvisamente in un contesto nuovo e si lasciano trasportare dal fascino spettacolare delle performance di circo di Sara Cambi e del teatro interattivo per l’infanzia di Nogu Teatro. Shanhte, Fatima, Giulio, Chiara, Arika, Faujia sono sempre in prima fila donando la loro vivacità, la voglia di giocare e la genuina curiosità nei confronti di un’occasione come quella del festival che si offre come un evento non ordinario.

Altro è equilibrio.

La sera è il momento di aggregazione maggiore, quando la temperatura si abbassa e le persone si fermano per incontrarsi, lasciar giocare i bambini o seguire il programma del festival. Vedo la piazza come una custodia di molteplici piani di realtà; nell’angolo occupato dal monumento ai Caduti della Montagnola, vi è lo spazio scenico, mentre il largo corridoio del piazzale è libero di essere attraversato. Tale differenziazione è sostanziale perché è proprio la modalità di utilizzo degli spazi che dà un valore specifico a ciò che accade all’interno di questi. Se da una parte lo spazio deputato alla scena ricostruito con il materiale tecnico crea un confine invalicabile dedicato esclusivamente allo spettacolo, dall’altra vi è una completa possibilità di varcare tale confine – lo stesso che si poteva percepire nella biblioteca. Questo è possibile perché le performance di teatro e danza urbana si sono svolte sia nello spazio dedicato puntualmente al teatro, sia nello spazio libero del piazzale: ciò vuol dire che il pubblico entra a far parte dell’evento con il suo stesso corpo. Quel confine liminale in questo contesto si sparge maggiormente e diventa sempre più impercettibile.  Alcune delle produzioni in programma – Anonima Teatri, Twain physical dance theatre, Enea Tomei, Margine Operativo e Diego Sinninger – si sono svolte nello spazio deputato; lo spettacolo viene vissuto dal pubblico come qualcosa che viene offerto, ma resta ad una determinata distanza seppur minima considerato il contesto ambientale. 1-0 di Nicola Simone Cisternino e Luca Zanni, Nothing to Declare di Yoris Petrillo, Steli di Stalker Teatro e il laboratorio/spettacolo di Giorgia Celli si sono svolti invece in quel corridoio libero e completamente aperto, scevro da qualsiasi coordinata a priori. Quel fondersi, con-fondersi dei ruoli tra danzatore e pubblico si esplicita nuovamente e dà all’atto performativo una nota estemporanea. Una signora che siede accanto a me mi domanda perché nessuno stia aiutando “quella ragazza carica di valigie”: se Nothing to Declare fosse stato performato nello spazio deputato, certamente la donna che mi sedeva accanto non avrebbe percepito la scelta drammaturgica come un evento fortuito.

Altro è manipolare il contesto.

“Poi venimmo a sapere […] che un corpo che si cerca, quando già si
possiede e si è stancato del suo ripetersi, e del suo polso, solo in altro
si ritrova. […] ogni corpo è il destino d’altro corpo.”

Pedro Salinas, Ragioni d’amore 

Il laboratorio/spettacolo di flamenco e la performance Steli sono stati significativi rispetto al tema dell’altro in quanto il confine è stato completamente svuotato dal suo significato ontologico. Nel primo caso il laboratorio, nella forma di una lezione propedeutica alla danza del flamenco, diventa esso stesso una performance in cui la danzatrice Giorgia Celli guida il pubblico e lo invita a varcare la soglia della scena.  Allo stesso modo nella performance Steli costruiamo insieme un percorso di nodi e intersezioni. Una fila di steli colorati è adagiata su un lato della piazza. Le persone presenti vengono guidate dagli artisti della compagnia Stalker Teatro per costruire una rete con tutti gli steli a disposizione legati gli uni agli altri in modo tale che pian piano prenda forma un corridoio di stanze: un luogo dentro un altro, una geometria frattale di spazi che chiude per accogliere, che apre varchi.

Altro è andare oltre i confini.

“Andare oltre” vuol dire rendere concreta la relazione con l’altro attraverso l’azione, “inchiodarsi alla superficie della terra per meglio penetrare l’aria e il suolo. […] Non stancarsi mai di costruire canali, aprire varchi perché il mondo possa cadervi, scivolarvi, insinuarvisi”.  Credo che queste ultime parole, dal libro di E. Coccia La vita delle piante che ha ispirato Enea Tomei per il suo solo Verde, diano un’idea chiara di cosa voglia dire fare del proprio privato un’esperienza collettiva in cui il Festival si rivela un mediatore per un’occasione di radicamento e immersione nell’altro.

 

Anna Di Bari